Noi abbiamo tanto, pensiamo a chi non se lo può permettere (Maria Grazia Pesare)
Tutti gli occhi dei passeggeri, nell’affollatissima metropolitana a Roma, quel pomeriggio d’estate erano puntati su di lei. Una ragazzina bionda con due occhioni verdi tentava di far passare attraverso le porte un quadro alto un metro raffigurante il Sacro Cuore di Gesù. Avrebbe attraversato tutta la città durante la sua pausa dal lavoro per regalarlo alle Missionarie della Carità. Ha impiegato mesi e mesi per dipingerlo nella sua cameretta, accompagnata dalle note di Stella gemella di Eros Ramazzotti. L’idea le era venuta durante una delle visite di volontariato alla Casa generalizia, quando aveva notato che sull’immensa parete di una stanza per la preghiera campeggiava solo una minuscola immagine di Cristo. Voleva fare qualcosa e finalmente il 12 giugno 1996 c’era riuscita, ma trasportarlo a piedi e con i mezzi pubblici non sarebbe stato semplice: il vetro era instabile e, per tenere fermo il supporto, aveva anche inserito alcuni biglietti dell’autobus pur di fare spessore. Maria Grazia Pesare (questo il nome della ventenne di Sava, una cittadina della provincia di Taranto) non accettava certo un “no” come risposta. Il tempo del tragitto era appena sufficiente per posare il quadro e tornare indietro per riprendere il turno e lo avrebbe fatto se una delle sorelle non le avesse sbarrato la strada insistendo per far vedere l’opera alla “madre”.
La fretta di lei e il fermento della suora impedivano un dialogo comprensibile, ma solo dopo vari tentativi si è insinuato il dubbio che non si riferisse alla superiora del luogo ma a Madre Teresa di Calcutta, in visita nella Capitale. Appena ha visto il quadro alla Madre si sono illuminati gli occhi, ha ringraziato e benedetto Maria Grazia con una mano sulla testa e le ha regalato una medaglietta della Vergine Maria, che ancora oggi conserva sua sorella maggiore, Carmen. La religiosa, scomparsa un anno dopo, ha deciso di portare quell’opera con sé a Dublino, dove si sarebbe recata subito dopo l’Italia. Maria Grazia avrebbe dipinto altri quadri, le ripetevano tutti, in grado di aiutare tante persone ad accrescere la presenza di Dio. Si sbagliavano, perché dal 2011 (aveva 34 anni) non è più su questa terra.
Di ricordi, invece, ne ha lasciati a milioni, gesti piccoli, quotidiani, nascosti, discreti come moglie e mamma (ha tre figli: Veronica, 13 anni, Nicodemo, 9, e Marta, 5), oltre che sorella, figlia, amica. “Ho capito subito che Maria Grazia era diversa da tutte le ragazze che avevo frequentato – ricorda il marito Carmelo – All’epoca svolgevo il servizio di leva nella Capitale e non mi aveva mai sfiorato l’idea di mettere su famiglia. Mi ha fatto ricredere: le sue coetanee pensavano a divertirsi e a godersi la vita, mentre lei aveva valori solidi, quasi d’altri tempi, capaci di farmi innamorare. La fede veniva sempre al primo posto e si arrabbiava se la trascuravo. Quando mia sorella Maria Teresa l’ha conosciuta mi ha detto di tenermela stretta e persino mio padre, un uomo di poche parole, mi ha consigliato di non lasciarmela scappare. Nel 1999 il matrimonio, dopo quattro anni e mezzo di fidanzamento (di cui due a distanza, perché lei lavorava a Londra), è stato un passo naturale. Molti ci chiedevano: “Perché vi sposate così giovani?”, ma noi volevamo solo iniziare la nostra insieme, come coppia, impegnandoci davanti a Dio”.
“L’idea che si potesse diventare santi nell’ordinario, predicata dal fondatore dell’Opus Dei San Josemaria Escrivà – dice la sorella Carmen – ha subito affascinato Maria Grazia. Entrambe, appena diciottenni, ci siamo trasferite a Roma per aiutare i nostri genitori: ci occupavamo di mansioni alberghiere per uno dei centri universitari della Fondazione Rui, dove abbiamo sentito parlare del suo messaggio. L’ho messo in pratica con gesti concreti: fare la spesa per chi ne avesse bisogno o mettere da parte indumenti da regalare. Io la prendevo in giro dicendo che aveva “spirito di conservazione” ma ancora oggi i miei due gemelli usano i vestitini dei suoi bimbi”. “D’estate andavano nella chiesetta di Monacizzo, in provincia di Taranto – aggiunge il marito – per aiutare a pulire prima della messa e d’inverno frequentavamo l’orfanotrofio di Oria aiutando i bambini abbandonati, che ad un certo punto ci chiamavano “mamma” e “papà”.”
“Quando la mia primogenita Veronica – continua Carmelo – ha iniziato la scuola materna era l’unica della classe a conoscere le preghiere, da quella del buongiorno a quella della sera, dalla benedizione al ringraziamento dei pasti. Maria Grazia ripeteva spesso ai nostri figli di chiedere aiuto all’angelo custode. Al suo, che aveva chiamato Max, si rivolgeva sempre, e nei viaggi per andare a trovare i miei genitori in Calabria sgranava la decina che aveva al dito in modo così silenzioso e discreto, che me ne sono accorto solo dopo tanto tempo. Lo faceva anche di sera, accanto al camino, quando riposava dopo una lunga giornata di lavoro e studio, recitandolo con la nostra figlia maggiore, al ritorno da scuola. Il bracciale con il rosario è stato l’unico gioiello che ha indossato fino all’ultimo momento e quando sembrava che la malattia le avesse dato tregua ha voluto fare un pellegrinaggio in un santuario mariano all’estero. Nonostante le condizioni di salute instabili, non si è mai lamentata. E comunque non potevamo immaginare che dopo 13 mesi dalla scoperta della diagnosi, la vigilia di Natale, sarebbe andata via. La più piccola di casa, Marta, era nata solo cinque mesi prima: ha avuto poco tempo per conoscere la mamma ma anche quando l’ha rivista, dopo tante settimane in ospedale, l’ha abbracciata stretta, sapendo perfettamente chi fosse”.
Quando Maria Grazia ha chiesto ad una delle sue migliori amiche, allora appena ventenne, di starle accanto il giorno delle nozze non ha parlato di abiti, addio al celibato o regali. Le ha solo detto: “Vorrei te come testimone perché ti affiderei i miei figli se un giorno mi accadesse qualcosa”. E la cerimonia ha rispecchiato quella semplicità e profondità d’intenti: “Niente di superfluo o lussuoso – ricorda il marito – perché mi aveva detto: “Noi abbiamo tanto, pensiamo a chi non se lo può permettere”. E così è stato. La mia sorella minore, Francesca, ha chiamato la figlia con il nome di mia moglie e tuttora mia mamma Bianca, che le è stata vicina fino all’ultimo momento, la considera come una figlia”. Quando Nicodemo è salito su un treno per la prima volta (un tragitto di 9 minuti) a casa ha raccontato di aver fatto un viaggio lunghissimo. Quando Veronica ha ottenuto, qualche settimana fa, il diploma di scuola media con 9 in pagella ha mandato un sms pieno d’entusiasmo. E quando Marta ha mosso quel passettino incerto senza l’aiuto di nessuno ha continuato a mettere in bocca solo il dito medio e l’anulare, come faceva da neonata. Maria Grazia non l’ha visto ma i suoi piccoli hanno la certezza che era lì con loro e ci sarà sempre.
A cinque chilometri dal centro di Oria, in provincia di Brindisi, sorge il Santuario di San Cosimo alla Macchia, uno dei luoghi di culto maggiormente visitati da Maria Grazia, meta del breve pellegrinaggio durante le domeniche in famiglia. Pare che per affluenza, in Puglia sia secondo solo al santuario di San Pio da Pietralcina a San Giovanni Rotondo. “Abbiamo sempre visitato insieme molte chiese – ricorda il marito – fin da quando ci siamo conosciuti a Roma. Ogni pomeriggio lei mi portava in giro a scoprire luoghi della cristianità in modalità sempre diverse: o aiutavamo a pulire o parlavamo con il parroco o partecipavamo alla Santa Messa. E dopo il matrimonio abbiamo continuato con i nostri figli, alimentando in loro la devozione”.
L’articolo è stato pubblicato sul settimanale “A sua immagine”, numero 85, 23 agosto 2014