Ogni storia d’amore ha le sue personalissime regole.
In una coppia sono benvenuti tremila messaggi al giorno, che vogliono sapere cos’hai mangiato e se hai lavato i denti dopo pranzo, in stile GPS o monitoraggio Protezione Testimoni. A loro va bene così.
Altri sono persino allergici al bacetto in pubblico o alla passeggiata mano nella mano e probabilmente non si sono mai detto “Ti amo” neppure una volta. Eppure la storia procede a gonfie vele.
Ecco, quando io devo descrivere il mio rapporto con la religione penso a qualcosa del genere perché provo allergia per le etichette. Non mi sento “cattolica praticante”, né “pia cattolica”, né “molto religiosa”, né “osservante cattolica”. Sono cattolica e basta.
Siccome non credo nelle relazioni a distanza, dopo tre mesi di lockdown e chiese chiuse, non mi vergogno ad ammettere che mi è mancato poter tornare in Chiesa, sedermi tra i banchi e starmene in ascolto. Così ieri, il primo sabato utile, mi sono munita di guanti e mascherina per andare a trovare non un amico, ma L’Amico. In questo periodo è il primo che vedo perché non ho incontrato nessuno ad esclusione dell’edicolante, del farmacista e del cassiere del supermercato. Quindi quest’appuntamento aveva un sapore ancora più speciale.
Mentirei se dicessi che la notte prima non ho dormito per l’emozione. La verità è che sono stata visitata da incubi di vario genere con il solito tema, la pandemia. E per vari motivi: la parrocchia – seppure gigantesca come dimensioni, ma a capienza ridotta di 200 fedeli durante la celebrazione – sarebbe stato il primo luogo con un simile affollamento che avrei frequentato da mesi. Nei giorni precedenti della fase due ho visto in giro i cosiddetti “assembramenti”: gente che si abbracciava, si baciava, chiacchierava gomito a gomito e senza alcuna protezione. Al punto da sentirmi un po’ fuori posto, con la vestizione di guanti e mascherina persino per buttare l’immondizia.
Per farla breve ero preoccupata perché non sapevo bene cosa aspettarmi, soprattutto dopo la notizia che in Germania dopo una funzione ci sono stati 40 contagi. Non sono sconsiderata al punto da pensare che la fede mi renda immune da qualsiasi malattia.
Così mi sono documentata sul sito della parrocchia, ho letto le regole e le precauzioni prese, mi sono premurata di uscire da casa con un pochino di anticipo per non arrivare quando avessero già raggiunto il numero di capienza e sono entrata.
Mi sono guardata intorno: le navate laterali chiuse dai nastri dei cantieri, il numero di banco ridotto con pallini gialli per indicare i posti dove sedere (per rispettare le distanze) e una serie di volontari a incanalare il traffico e a tenere il conto dei presenti.
Niente libretti dei canti, niente foglietti della liturgia, niente acqua santa all’ingresso, niente coro. Tra i banchi quasi tutti adulti (moltissimi pensionati), nessun adolescente, nessun bambino, solo un cane con il guinzaglio. Qualche pensionato era visibilmente irritato per la scelta obbligata del posto, qualcun altro voleva salutare gli amici e passeggiare per la navata centrale, altri hanno subito abbassato la mascherina sul mento, una volta giunti al banco.
La celebrazione non è cominciata ma si percepisce un certo nervosismo generale, sguardi di sottecchi e tanta diffidenza. Gli unici sorrisi (li ho immaginati perché impossibili da vedere con le mascherine) sembravano arrivare al momento della (mancata) stretta di mano per la pace.
Il parroco non indossa mascherina né guanti (se non durante la Comunione, dopo aver igienizzato le mani), mentre alcuni degli altri sacerdoti presenti si scoprono di tanto in tanto il naso o la bocca. I lettori si avvicinano ai microfoni togliendo la mascherina e durante la processione per ricevere l’Eucaristia il famoso metro di distanza sembra molto complicato da mantenere.
Contrariamente a quanto avrei immaginato, il parroco ha inaugurato il ritorno alla Messa domenicale con una Messa solenne, cantata e lunga oltre un’ora. Ho provato a concentrarmi su qualcosa che non fossero quelli che mi camminavano accanto mentre ero seduta nel banco o i pochi che si ostinavano a gironzolare invece di prendere posto o quanti toglievano la mascherina. Non ci sono sempre riuscita, perché ero in uno stato di allarme costante, di “vedetta” anche se involontaria.
Mi sono sforzata di ascoltare l’Omelia con particolare attenzione per scoprire quasi subito che non conteneva il minimo accenno alla situazione attuale. Il commento al Vangelo era una specie di trattato di teologia e agiografia, un ricercato discorso filosofico totalmente scollato dalla realtà. Di solito mi piace ascoltare aneddoti delle vite dei Santi e citazioni colte sull’escatologia cristiana. Eppure oggi avrei voluto sentire il calore di una carezza, la forza di un incoraggiamento, il senso di una tragedia che nel mio piccolo non riesco a capire.
Un po’ me lo aspettavo perché in questa parrocchia preferiscono le maniere forti: niente smancerie, coccole o romanticismi. Sono “vecchio stile”, come quei genitori che non dicono “Ti voglio bene ai figli” per non crescere dei rammolliti e che puntano su punizioni esemplari e strigliate memorabili. Quando vai a confessarti hanno anche l’abitudine di tener ferme le mani del penitente per dargli qualche buffetto/schiaffettino a mo’ di promemoria dell’ira divina.
È vero, non sono io a fare la “predica”, mi devo limitare ad ascoltarla e farla mia. Però, come mi si faceva notare tempo fa, non sono proprio bravissima nel rapporto con l’autorità (non a caso già a due anni mi chiamavano Signorina No). Mica me ne sto vantando, ci mancherebbe pure, però stavolta la mia anima desiderava quel conforto, umano e divino, una qualche rassicurazione che davvero andrà tutto bene, perché un po’ comincio a dubitare del fatto che saremo tutti migliori. Dopo. Ma dopo quando? Nessuno lo sa. Tantomeno io.
E qui si ritorna al discorso dell’amore di coppia o nell’amicizia, che è la situazione più vicina che mi possa venire in mente per descrivere il rapporto di fede. Ecco, ci si avvicina in punta di piedi – o in versione caterpillar, dipende dal temperamento – ma comunque resta inevitabile il carico di aspettativa che si proietta sull’altro.
Lo dico cosciente di aver preso qualche rischio in passato, per andare a trovarLo dovunque fossi, dalla Cina alle Bahamas e dagli Emirati Arabi all’Est Europa. Ho partecipato a riti in lingue sconosciute con usi liturgici anche molto diversi da quelli a cui sono abituata, alcune volte sono stata persino indirizzata verso chiese cristiane ma non cattoliche. Una era poco più che una casetta a pochi passi del deserto, un’altra aveva la sicurezza armata e il filo spinato. Non mi spavento facilmente né mi abbatto al primo ostacolo. Eppure oggi ho avuto paura, non mi sono sentita al sicuro o protetta e per gran parte di quell’ora sapevo che nessuno mi avrebbe potuto garantire l’incolumità.
Ad un certo punto le lenti appannate degli occhiali e l’effetto-forno dei guanti ho smesso persino di sentirli, sono rimasta solo immobile, quasi volessi giocare a nascondino con il virus sperando che non si accorgesse della mia presenza. E ancora adesso a ripensarci non so se sia stata incauta o avventata. In cuor mio so di aver fatto la cosa giusta, un atto d’amore e di fiducia, ma il dubbio resta. Evidentemente tra gli effetti collaterali del Coronavirus c’è anche una forte componente irrazionale che intorpidisce il pensiero. Detesto avere paura e perdere il controllo ma oggi per manifestare la mia sacrosanta libertà di culto mi sono sentita ancora più piccola del solito.
Ho chiamato in aiuto i Santi che ho conosciuto dal vivo (sono fortunata, sono almeno due ed entrambi saliti alla gloria dell’altare, Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II) e anche quelli con cui non ho mai parlato di persona, per trovare quell’abbraccio che volevo a tutti i costi. Forse però non avevo bisogno di quello, ma di capire altro. Quanto mi piacerebbe sapere di cosa si tratta…
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)