Gli uffici postali sono da sempre il mio guilty pleasure quindi no, non sono gli effetti della quarantena sulla gente a farmeli rivalutare. Scrivo ancora a mano – tendinite permettendo – lettere, cartoline e quegli adorabili bigliettini di compleanno e ringraziamento che oltre oceano vanno così di moda. A Macao ne ho comprati una vagonata e li abbellisco con il mio hobby preferito, lo scrapbooking. Il romanticismo di un pensiero impresso su carta, in uno scrigno così piccolo, la busta, eppure tanto prezioso mi emoziona sempre.
Siccome però non ho il dono dell’essenzialità e vengo dalla cultura che Casa Surace ha ribattezzato come “i pacchi da giù” il mio concetto di prendersi cura di chi amo include pesantissime scatole piene di qualunque cosa.
Complici la tendinite di cui sopra e la mia goffaggine, spesso rotolano sul marciapiede nel mio tragitto di otto minuti a piedi da casa al più vicino ufficio postale quindi le imballo come se dovessero essere provvigioni da mandare in un Paese in guerra, con doppio strato di carta da pacco, scotch a tripla durata e spago ultraresistente. E mi diverte questo laborioso lavoro da elfo di Babbo Natale che poi viaggia lontano, dove io in questo periodo non posso andare. Tutto questo per dire che andare in Posta a me rende felice. Sempre. Meno di un aeroporto, ma pur sempre felice.
In questi tre mesi di lockdown mi sono tenuta alla larga da questo luogo delle meraviglie, ma oggi per la prima volta ci sono tornata per inviare documenti fiscali che di solito avrei consegnato di persona. Vista però la congestionata situazione di metro e autobus romani, ho evitato.
Non è posta che ricordavo, con gli omini simili ai bradipi di Zootropolis, che mettono un timbro ogni mezz’ora (come si vede nella clip del film in alto). Stavolta da una postazione all’altra volavano battute sconce, ma nessun lamento sulla disumanità del trattamento a loro riservata. Igienizzante all’ingresso, addirittura cinque sportelli aperti su dieci alternati e nessun numeretto da prendere. In fila indiana e a distanza di un metro, il pubblico entra uno alla volta e – avvenimento mai verificatosi nella mia decennale frequentazione – esce dall’ufficio con celerità.
Che il Coronavirus ci abbia resi migliori? Non mi capacito. Mai vista tanta solerzia dall’altra parte del vetro, quasi quasi mi viene voglia di sedermi sul pavimento a gambe incrociate e gustare il via-vai delle buste che prendono il largo. Ovviamente non lo faccio, per ovvie ragioni igienico-sanitarie, ma la tentazione c’è.
Certo, in fila ci sono signore che portano a spasso la mascherina (come dimostra la foto in alto che ho scattato prima di entrare) e in giro si moltiplicano gli anziani che, in assenza dei cantieri, piantonano gli angoli delle strade ad osservare le file nei negozi (come documentato nell’immagine in basso mentre stavo per pagare la verdura dal fruttivendolo). Ma, si sa, ognuno affronta le emergenze come può e come crede, con i limiti dettati dalle circostanze e dal buonsenso.
A Roma si dice che un addetto alle Poste di solito “scapoccia”, vuol dire che va di matto per un nonnulla, sotto il peso dell’affollamento e delle lamentele sui ritardi. Ma mai avrei pensato di vedere un giorno in cui l’alacrità sembra tornata di moda. Mi sono davvero quasi commossa.
Non so se questi addetti siano semplicemente sollevati all’idea di avere un lavoro, di poter sfuggire al consorte e ai pargoli dopo l’isolamento domestico o di avere l’opportunità di godere del caffè del bar ogni ora con consegna alla scrivania, ma non importa. Qualunque sia la ragione, per quanto il bradipo di Zootropolis sia adorabile sullo schermo – dove di fatto non sono io a fare la fila – ammetto che nella realtà un po’ di ritmo non guasta. E già pregusto cosa posso architettare per i prossimi pacchi-sorpresa da spedire agli amici sparsi per il mondo. Mi auguro che questo trend positivo duri ancora qualche settimana e non si ritorni in auge la saggia verità che ho scoperto a Milano, dove ho vinto secoli fa un concorso a tempo determinato.
In quell’ufficio pubblico mi è stato insegnato la “legge dello sportello”, una di quelle consuetudini non scritte ma facilmente verificabili. Io, la novellina, ero l’unica elettrizzata all’idea di stare a contatto con il pubblico invece di compilare documenti nelle retrovie. Non che chiacchierassi con gli utenti e perdessi tempo, certo, ma mi affascinavano le storie dietro la richiesta di un certificato. Mi hanno tolta quasi subito da lì perché ero veloce e finivo presto.
Onestamente non lo capivo: ero svelta a digitare sulla tastiera anche nelle altre mansioni e lì lo smaltimento delle pile di certificati in tempi rapidi non veniva visto come un problema. Poi l’illuminazione da una collega che lì aveva speso decenni.
Mi ha spiegato con molta circospezione cosa accadeva, chiedendomi con semplicità: “Cosa succede quando esaurisci il numero di persone in coda prima che l’orario di apertura dello sportello finisca?”.
Pensavo fosse una domanda a trabocchetto, ci ho pensato un attimo e poi le ho risposto: “Passo ad un altro servizio”.
Ha sorriso e mi ha risposto: “Appunto”.
Quindi in pratica se uno sportellista dilaziona il tempo di risposta tra un utente e l’altro di fatto arriva all’orario di chiusura più o meno quando si presenta l’ultima persona in attesa e non c’è modo che si possa occupare di altri compiti.
Allora ho osservato il capo-sportello, un omino con le sopracciglia sempre incurvate, quando dichiarava ufficialmente chiuso l’orario di apertura al pubblico. Girava la chiave nella porta antistante alle postazioni e ghignava pensando che un giorno in più lo avvicinava all’imminente pensione. Poi apriva il cassetto della scrivania, prendeva una forbice, tagliava con precisione chirurgica un angolo della busta della mozzarella e si scolava l’acqua all’interno, prima di azzannare il fiordilatte.
Ecco, per tutta la vita sarà sempre questa per me l’immagine che associo al famoso bradipo. Con la stessa dose di sconcerto misto ad affetto provata quella prima volta.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)