Avere una casa “a senso unico” ha i suoi vantaggi, almeno di questi tempi. Vivere in un monolocale mi ha insegnato che è impossibile camminare in due per il corridoio o in una stanza e quindi dare la precedenza è l’obbligo. Mi è servito quando ho programmato, con una serie di protocolli degni della CIA, il primo incontro dopo tre mesi con un’amica. L’effetto Mrs. Doubfire è stato pressoché immediato: ho rimosso ogni granello di polvere, ispezionato tutte le superfici e attrezzato gli spazi seguendo nel mio piccolo le istruzioni date ai ristoranti. Niente plexiglass, però, né campane-lampadari in testa agli ospiti, sia chiaro.
Dopo la ricognizione anti-acaro, ho rifornito il mio angolo-farmacia all’ingresso, ossia una fornitura di mascherine e guanti monouso acquistate online da vari siti sparsi per il globo. Ho messo tutto in fila, più o meno ordinatamente (non è che il lockdown mi abbia trasformato in Mary Poppins), e ho allestito in bagno un angolo con amuchina, salviette igienizzanti e asciugamani per gli ospiti.
Poi sono passata alla mia personale fase due, con la scelta del delivery su Glovo (prima volta in assoluto, di solito optavo per Just Eat). Per l’occasione non potevo che onorare il kebabaro più buono della Capitale, Alì Babà (se non ci credete, guardate il pilot di Romolo+Giuly e ne avrete conferma, anche se la disputa con Roma Nord sull’eccellenza etnica continua senza tregua).
Ho anche allargato il tavolo-mignon per rispettare la distanza tra commensali. Ho misurato la superficie con il metro dell’Estetista Cinica, che mi sembrava appropriato per la circostanza: occorreva la stessa minuzia con cui si annotano i centimetri del giro vita, no?
Ho apparecchiato con tovagliette singole (quelle degli X-Men, per dare un tocco “eroico” a questa sfida) e tovaglioli di carta, rispettando spazi e simmetrie. Persino Bastianich mi avrebbe fatto i complimenti, se non avesse notato l’immancabile Fanta alla mela verde come bevanda da degustazione.
Bando alle ciance, ci siamo quasi.
Quando arriva la mia amica, io apro la porta e mi tengo a distanza. Le indico il bagno con gesti tipici delle assistenti di volo prima del decollo e la faccio decontaminare come se arrivasse da Chernobyl anziché dal Raccordo Anulare. Getta mascherina e guanti e prende posto sulla sedia designata. Non che avesse molta scelta, la mini-cucina ha solo due sedie e la mia ha un cuscino con un gufo sopra (un po’ come i locali in Cina che hanno messo i peluche a delimitare i posti non occupabili).
Quest’eccesso di zelo ha aperto in me una voragine immensa e un po’ di agitazione: niente baci, niente abbracci, manco una pacca sulla spalla per celebrare il momento. Neppure il triste “batti il cinque” che una volta ho rifilato al tipo che mi piaceva perché mi sono lasciata distrarre dai suoi occhi furbetti e non sono stata abbastanza veloce per un contatto serio (essendo altro oltre due metri c’erano degli evidenti problemi logistici…).
Immaginate la scena: la tua bestfriend – come direbbero i Millennial – la vedi per anni continuamente, poi di colpo l’isolamento, il vuoto, la distanza, la paura. Se fossimo in un film ci sarebbe in sottofondo una musica struggente per il cambio di scena e di stagione (stile Notting Hill con Hugh Grant al mercato). Ed eccoci qui, una di fronte all’altra (ribadisco che, anche volendo, stare accanto nel monolocale è un’impresa che nemmeno Tom Cruise riuscirebbe a portare a termine).
A me veniva voglia di saltellare, piangere, ridere, stringerla forte e invece mi sono ritrovata senza parole. E qui serve una parentesi: non sto zitta neppure dal dentista. Al punto che io e lui abbiamo una prassi ben consolidata: quando alzo la mano durante la seduta lui si ferma e mi lascia chiacchierare. Poi riprendiamo. Solitamente gli altri lo fanno quando avvertono dolore ma io sono cliente fissa dall’età di quattro anni e stare su quella poltrona non mi fa nessun effetto. Eppure, nonostante l’anestesia, devo dire qualcosa. Non ce la posso fare a tacere. Questo per dare un’idea di quanto debba essere stato sconvolgente quel ritorno ad un pezzettino di normalità se mi ha lasciato a bocca aperta.
Rispettando il senso di marcia, ci siamo messe a tavola seguendo gli spostamenti del delivery sulla app con la stessa concentrazione dei Magi in cammino dietro la stella. Ok, c’è un po’ di blasfemia nell’analogia, ma è solo un modo affettuoso per far vedere come le priorità cambiano nella vita e tu ti adatti. Prima mi si aggrovigliavano le budella (come Pretty Woman all’opera) alla vigilia di un’intervista a Londra con Rihanna – va anche detto che si è presentata alle 10 di sera dopo 5 ore di ritardo – mentre adesso sento le farfalle nello stomaco per il fattorino che mi porta il primo kebab post-isolamento.
Quando ho aperto la porta ho finto la nonchalance di Baby George che si è presentato in camicia da notte da Barak Obama, ma non credo che abbia funzionato. Ancora un po’ e avrei abbracciato il fattorino. Non l’ho fatto, per fortuna, perché mi è rimasto un pizzico di autocontrollo e qualche brandello di dignità.
Chi conosce Alì Babà sa bene il flusso 24 ore al giorno di gente che si stipa nel locale per questi kebab eccezionali, il vociare ininterrotto della variegata clientela e lo strillo continuo del numeretto che indica il proprio turno. All’esterno ci sono tavolate di legno massiccio, che spesso condividi con estranei che poi alla fine del pasto diventano tuoi amici fraterni. Insomma scene tipiche da Roma Sud, direbbe qualcuno, ma che io amo alla follia perché mi danno il polso del calore umano.
Quindi mangiare in silenzio e in imbarazzo lo stesso kebab per la prima volta in due, a casa, sembrava quasi un sacrilegio, un modo per dissacrare quel tempio di bontà fuori alla metro Arco di Travertino. Intanto, boccone dopo boccone, l’ansia si è sciolta ed è spuntato un sorriso. Chi l’avrebbe mai detto che sarei riuscita a ricreare una situazione quasi normalità durante tutto questo delirio?
A fine serata mi veniva da piangere e qui potrebbe scattare la retorica dell’”andrà tutto bene”. Sì e no. Da un lato, io ho versato lacrime in passato anche per Babbo Bastardo. Dall’altro, durante questo isolamento sono diventata sensibile su situazioni che prima neppure consideravo come degne di nota.
Meno male che non ho smesso di sorridere agli estranei per strada, peccato che ora non se ne accorgano più… ma almeno non mi prendono per stalker. Va così: alcune cose riprendono a funzionare, altre meno, ma intanto io sto già progettando il bis con un altro amico perché ci sto prendendo gusto. E questa “nuova mondanità” potrebbe persino divertirmi. Prima o poi.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)