Ormai non ho la più pallida idea di cosa sia un weekend “normale”. In parte perché odio questa parola, che in realtà dovrebbe solo definire quello che è statisticamente più diffuso, ma soprattutto perché dopo tre mesi di lockdown i giorni sembrano tutti simili. L’agenda è vuota e il mio ambito principale di lavoro – il mondo dello spettacolo – resta per buona parte fermo. Quindi trascorrere un fine-settimana “alla vecchia maniera” è fuori discussione, perché includerebbe viaggi e fusi orari. Nell’era post-quarantena persino riprendere ad una ad una delle azioni di routine sembra importante come i primi passi sulla Luna.
Non bevo caffè quindi di solito l’abitudine della colazione al bar non mi appartiene affatto. Sabato però è stato il primo cappuccino deca+bomba alla crema al tavolino esterno di un locale e lo stato di euforia mi lascia ancora senza fiato. Di questi tempi tutte le mie emozioni sono diventate estreme e polarizzate, anche se ad onor del vero non mi consideravo affidabilissima neppure prima, visto che mi sono commossa per Babbo Bastardo. Ma mi piace pensare sia stata un’eccezione, mentre ora anche il più banale e “ordinario” dei vocali di Whatsapp mi fa affiorare le lacrime.
Per dovere di cronaca va detto che non ho pianto in pasticceria e neppure dopo. Ero solo stupita di poter girare al centro di Roma, senza ZTL (ancora non mi azzardo a prendere autobus e metropolitana) e con pochissimo traffico. Mi esaltava l’idea di vedere con occhi nuovi monumenti come la fontana di Piazza della Repubblica che avrò sfiorato centinaia di volte prima di entrare ad un’anteprima stampa al Cinema The Space Moderno. A lungo però non la degnavo di uno sguardo, troppo stizzita che la fermata della metro fosse stata chiusa per fermarmi a contemplare la bellezza.
Sia chiaro, non mi sono seduta per terra con le gambe ad indiano sui sampietrini ammirando i dettagli delle statue, ma ho sorriso pensando che fosse la prima volta davanti a quella bellezza, senza l’ombra di un veicolo per alcuni minuti. Il cielo su via Nazionale sembrava dipinto e tutto mi è apparso quasi a rallentatore, mancava solo un quartetto d’archi. Eppure tutta questa poesia quotidiana quando correvo come un bolide da un appuntamento di lavoro all’altro non mi sfiorava neppure il pensiero. Non è sempre stato così: ho frequentato l’università in zona San Pietro e per cinque anni non è passato una sola mattina senza che esprimessi gratitudine mentale per essere lì. In effetti se non fosse stato per la borsa di studio della Regione Lazio probabilmente non avrei potuto mai mettere piede su un suolo accademico, quindi mi sentivo sempre presa per mano in una delle avventure più incredibili della mia vita.
Ora la prospettiva è un po’ diversa: lo scorso anno Leonardo DiCaprio ha fissato nella Capitale i primi di agosto una conferenza stampa e tra i colleghi – inclusa me – si è levato un coro di mormorii per la scelta di una data tanto infelice. Adesso quel genere di problemi purtroppo resta archiviato in un passato prossimo e pure remoto, a cui mi riferisco sempre più spesso con la frase “nella mia vita precedente”.
Se mi ci soffermo per più di un attimo allora sì mi viene da piangere, perché vorrei essere da Mark & Spencer (in un negozio qualunque, dalla terra madre a Londra fino a quelli che ho scoperto ovunque, da Dubai all’Arabia Saudita, a cercare uno di quegli abiti che mi hanno fatto sempre sentire bene, compresi tutti quelli che indosso nel video-trailer di presentazione del blog) piuttosto che inveire contro le taglie centrifugate di Zara, che peraltro non fa più provare alcun genere di capo, ma permette il reso entro sette giorni.
E allora mi assale la nostalgia: non ero pronta a lasciarmi tutto alle spalle e avrei voluto un pizzico di tempo in più per dire addio a quella meravigliosa esistenza da globetrotter.
Ma sto divagando, come al solito, perché l’oggetto del weekend non è un “requiem” di una viaggiatrice, ma la tenace – e a volte patetica o disperata – voglia di aggrapparsi a qualsiasi tipo di abitudine familiare (persino il ritorno in posta) per alimentare l’illusione di un ritorno alla “normalità” (come la prima cena a casa con un’amica).
E così è stato: dopo la colazione al bar e il giretto in centro è arrivata l’ora del pranzo e mi sono sentita audace nel proporre McDonald’s. Ci sono stata l’ultima volta durante il Festival di Berlino, con una delle mie amiche egiziane che rivedo (rivedevo) sempre in giro per i festival di tutto il mondo: lei mangiava un kebab, io invece uno di quei panini grondante olio – e felicità fatta di grassi saturi – con quelle patate schiacciate tra due fette di bacon. In Italia è una variante che non esiste, quindi se sono in Germania ne approfitto. E all’epoca (febbraio e tutti gli anni precedenti, a partire dal 1996, quando ho scoperto il fastfood per la prima volta) sarei stata capace di divorarne anche due o tre di fila.
Ecco, stavolta la situazione si è capovolta e non ho tenuto alto il nome di socia del club (ho davvero una tessera, a tiratura limitata, emessa da un McDonald’s di Macao). Poco dopo il pranzo mi sono resa conto di aver bisogno di limonata e Digerselz: persino il mio stomaco in questi mesi si è disabituato a quello che viene etichettato come cibo-spazzatura ma che a me da (dava?) grandi soddisfazioni. Troppi cambiamenti tutti insieme?
Forse, come gli sbarramenti davanti ai camerini dei negozi o all’ingresso, con tanto di nastro da cantiere e transenna (come già successo in chiesa). Applaudo al rigore della misurazione della febbre, dell’uso dei guanti o dell’igienizzante nei vari reparti, ma non posso evitare di ripensare all’ultima volta in cui ho avuto voglia d’indossare un abito.
Lavorando da casa ormai vivo in tuta e poi la cambio (sempre con un’altra tuta) per uscire. Sabato il look sfoggiato per questa sequela di “prime volte” era quello che ribattezzo con affetto “stile scappata di casa”. La mia amica, per essere gentile, ha detto che sembrava avessi addosso un pigiama. Di bene in meglio, insomma, ma in effetti ci è andata vicina.
Ormai l’ex frangetta – con intermezzo di ciuffo e poi di codino alla Ciottolina dei Flintstones – ha iniziato ad animarsi e a fare vita a sé. Almeno finché non la domerò di nuovo tornando dal parrucchiere per coprire anche la ricrescita. Ecco, ne ho zero voglia perché non mi aiuta affatto a pensare che “torneremo come prima” e “andrà tutto bene”, quindi per il momento mi crogiolo in questa sorta di coperta di Linus. È come se inconsciamente volessi vedere, guardandomi allo specchio, i segni di questo lockdown. Sarebbe tecnicamente impossibile dimenticarlo anche nel sonno – visto i vari incubi ricorrenti – ma a volte la mente umana tende a giocarci brutti scherzi e a boicottarci. Forse questo è uno di quei momenti, ma onestamente non ho alcun interesse a scoprirlo.
In una situazione già limitata di suo – oltre che spaventosa per le ipotetiche onde di ritorno del Coronavirus – mi sembra davvero insensato (almeno per quanto riguarda me) aggiungere altri paletti e obbligarmi a fare cose controvoglia, per seguire le “regole della pandemia perfetta” (per parafrasare Shonda Rhimes).
Un mio amico londinese ogni volta che m’impunto su qualcosa attacca a cantarmi “Let it go”, di Frozen, e non gliene frega niente se siamo in un posto affollato (beh, quando ovviamente si poteva fare). Mi sembra di sentirlo anche adesso, che mi dice di mollarla con questa tiritera e di andare avanti, di guardare il lato positivo o quantomeno di fare limonate con i limoni della vita.
Ovvio che abbia ragione, lui è uno saggio, mica come me che scalcio finché non ottengo quello che voglio (la chiamo “tigna”, non so però se renda bene l’idea). Mi ricorda quando ho sperperato la paghetta di nascosto per comprare la Maglieria magica di Barbie con la complicità del mio nonno del cuore. Non penso di essere stata grande abbastanza da saperne leggere le istruzioni né m’importava che mia madre, da sarta sopraffina, potesse tessere e cucirmi qualsiasi abito per le bambole (cosa che poi ha fatto con collezioni degne di Versace, negli Anni Ottanta). La signora bionda che gestiva la cartoleria era deliziata dai miei modi a metà tra il carbonaro e il pirata ammutinato, pensava ingenuamente che tutto ciò fosse adorabilmente insolito.
Comunque ancora una volta sto deragliando dall’intento principale, ossia tessere le lodi dell’ordinario ritrovato. La prima colazione al bar, il primo pranzo da McDonald’s, il primo giro tra i monumenti e il primo approdo in un centro commerciale. Non so se ci sia riuscita o meno, ma almeno provo a trovare un senso in quello che a tutt’oggi per me ne ha molto poco. Mi fa tenerezza che queste “prime volte” generino in me tanto stupore e mi spaventa la sola idea che tutto questo mi possa bastare.
Per adesso comunque me le faccio andar bene. Insomma, per citare ancora la saggia Shonda, se vivi in un pozzo quanto meno arredatelo. E lei sa bene di cosa parla, anche se ha sterminato quasi tutto lo staff medico di Grey’s Anatomy attirando su questi poveri malcapitati più calamità naturali di una guerra.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)