Per me l’intero universo IKEA si riassume in due paroline, polpette svedesi. Non faccio bricolage e con un martello in mano divento un pericolo pubblico (ad essere onesta, lo sono anche senza, grazie ad un’innata scoordinazione motoria). Sulla carta, insomma, mi mancano proprio le basi per fare visite abituali a questa mecca del mobile a pezzi. Da quando però uno dei suoi punti vendita è a pochissime fermate di autobus da casa mia ho iniziato a segnare sul calendario ad esempio la data di fine ottobre per l’arrivo delle decorazioni di Natale e ci vado subito, per essere sicura di trovare tutti i bigliettini e i pacchettini giusti per gli auguri delle feste.
Sfoglio con religioso rispetto i cataloghi e ho un’insana predilezione per cassetti, cassettini, scatole e scatoline, recipienti di ogni genere per immagazzinare, custodire, archiviare e ordinare qualsivoglia oggetto di cancelleria e documento. In parte perché sono una fanatica delle agendine e, oltre a tutte quelle che ricevo in omaggio come gadget, ne compro in quantità industriale: scrivo tantissimo, eppure quelle bianche rappresentano sempre un numero sproporzionato rispetto a quelle usate. Non so se sia collezionismo, mania o semplice abitudine.
Da bambina, ci era permesso un solo giorno di shopping all’anno “istituzionale”, nel senso di “giustificato”. In famiglia è sempre esistito un rigido regime sul concetto di utilizzo delle risorse, di sprechi e di economia domestica quindi l’unico momento in cui avevo un alibi inattaccabile per fare acquisti era la settimana prima dell’inizio dell’anno scolastico. Ricordo quella data con estrema chiarezza – alle medie, quando questa tradizione è stata istituita, anche se per pochi anni – e l’aspettavo forse più del compleanno perché io avevo il potere di decidere cosa volevo e come lo volevo, invece di accettare regali inutili, di pessimo gusto, di qualità mediocre o privi d’ispirazione, per non parlare di quelli pensati per il “futuro matrimoniale con un buon partito”. Non so perché comprassi orribili quaderni con paperi dal naso sproporzionato, ma a me sembravano l’ottava meraviglia del mondo.
Di fatto non avendo mai avuto una libreria in camera, né un vero e proprio mobile tutto mio per archiviare le poesie, i racconti e gli aforismi che scrivevo da ragazzina, oggi da adulta entrare da IKEA mi fa sempre uno strano effetto. Non ci vado per passeggiare o passare il tempo (so che a molti rilassa, io proprio non ci riesco), ma quando ho un obiettivo concreto allora sì che mi ci diverto.
Cosa c’entra questo con la pandemia? Io non ho giardino, terrazzo o balcone da arredare (pare siano gli arredi più richiesti), ma uno studio domestico sì e qui mi ricollego al momento amarcord di prima. Niente mi dà più gioia del trovare un bel contenitore, motivo per cui all’aeroporto di Macao sembravo uno sherpa, curva sotto il peso dei materiali più diversi per ottenere questo scopo. L’ufficiale davanti al metal detector avrà pensato che contrabbandassi qualcosa spacciandola per plastica e carta, ma no, era tutto vero. Anche ad Hong Honk c’erano interi piani dedicati ad esempio ai nastrini da pacco o ai cartoncini d’auguri e io mi commuovevo sempre davanti a tanta immensità, oltre che a divertirmi come una matta perché per ore in sottofondo nei negozi la playlist comprendeva sempre canzoni di gatti che miagolavano brani natalizi. Spero che nessuno si offenda se dico, con orgoglio, che mi sento proprio cinese dentro.
All’apparenza tutto questo non ha alcun nesso con la Svezia e con l’IKEA, ma uno o due suoi reparti mi riportano a quell’euforia delle compere di cancelleria da adolescente. È come se lì potessi ancora farla franca con un acquisto di troppo, come la lampada a forma di gufo da mettere sul comodino, unico acquisto della mia prima visita in negozio dopo il lockdown.
Ecco, il tema del discorso era questo ma temo di essermi persa nel viale dei ricordi, come Alice nel Paese delle meraviglie, ma forse mi è utile a capire perché è stata proprio la catena svedese una delle mie prime tappe alla fine dell’isolamento. Avevo un doppio fine, quello delle polpette svedesi e anticipo il cliffhanger finale dicendo che il ristorante operava solo a pranzo (epic fail). Continuando con gli spoiler, alla fine del giro non aspettavo altro che consolarmi con il panzerotto del bar. Niente da fare: con la chiusura anticipata, pure il forno terminava il servizio prima. Che mondo crudele, quello dove per ben due volta in poche ore qualcuno t’illude che un guilty pleasure è dietro l’angolo e invece ti aspetta solo il consueto “mai una gioia”.
Per il resto mi sentivo come Thierry Fremaux, quando annunciava il programma di un Festival di Cannes che quest’anno non c’è. Un fantafestival, insomma. Ecco, io pure gironzolavo per gli ambienti ipotizzando arredi di una fantacasa, ma mi sembrava finalmente una cosa molto più reale dei tre mesi finora passati, chiusa nel mio appartamento per il Coronavirus.
Ovviamente sono entrata nel negozio bardata con mille protezioni, dai capelli raccolti alla mascherina e ai guanti, ma non ho dovuto poi fare lo slalom che avrei immaginato tra gli altri clienti. A parte qualche gruppo familiare o amicale un po’ indisciplinato (mi sfugge il senso di un accorato abbraccio di fronte ad un lavandino del bagno), percepivo invece una certa elettricità statica, quell’euforia che deve provare una Kardashian quando compra un’isola privata e che invece tutti noi comuni mortali proviamo quando troviamo il mestolo dei sogni.
Quel senso di ritrovata pseudo-normalità rendeva le future spose o neo-conviventi meno Godzilla del solito, con i recalcitranti fidanzati/futuri mariti/compagni al seguito. Pochissimi i bambini lasciati liberi di saltare su letti e divani, anche loro questa volta avevano il guinzaglio corto (in senso figurato, of course).
L’angolo delle occasioni prosperava e nessuno sembrava occupato a rubare metri e matite. Forse è l’unico posto visitato finora dove la gente ha ritrovato un senso di civiltà ma non per dovere civico – figuriamoci – quando per distrazione. Invece di pensare per una volta che il giardino del vicino era più verde, tutti sembravano occupati a coltivare il proprio, di nuovo e finalmente accessibile.
Sarà stato anche per gli altri liberatorio acquistare mobili dalle istruzioni complicate che avrebbe permesso di occupare la dilatazione temporale da Covid-19 e l’inevitabile noia. Non fosse altro che per alienarsi in una bolla tutta propria e ricostruita ad arte, in una situazione domestica troppo sovraffollata.
E siccome di questi tempi tutte le emozioni sono polarizzate e quindi estreme, ci si commuove persino davanti ad una libreria Billy. Ho avuto la sensazione che potessi davvero costruire qualcosa, progettare concretamente e controllarne l’esito. In poche parole tutto quello che mi è stato tolto in questi mesi. E, munita di prudenza e Amuchina, mi sono sentita relativamente sicura per sperimentarlo. Non avrei mai detto che le polpette svedesi siano una sorta di biscotto della fortuna cinese e racchiudano tanta e tale saggezza.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)