I preparativi per la prima cena al ristorante post-lockdown mi hanno ricordato l’euforia provata quando ho ricevuto un mazzo di rose da ragazzina, la cura con cui ho sistemato il look scelto per l’appuntamento (era Anni Novanta, il risultato sarebbe stato impietoso comunque) e le budella annodate dalla tensione dell’attesa.
Penso, che a conti fatti, mi sia andata meglio con questa pandemia. Ho provato vari jeans (due paia su tre non salivano più su delle cosce, quindi adios!), in pratica l’unico paio di pantaloni in tre mesi che non fosse una tuta – da casa o da sportwear, poco importa – e c’è mancato poco che mi dessi una pacca sulla spalla per lo sforzo. Ho alzato il tiro: ho scelto una maglia nuova, una vera, non di quelle t-shirt con cui giro sempre di questi tempi (le adoro, sia chiaro), con il nome dei film o delle serie tv o delle passioni nerd.
Ho pure messo una collana speciale, i vari anelli, il bracciale, insomma – per farla breve – un po’ di tutto. E, già che c’ero, ho fatto la spavalda provando ad indossare le cuffie del lettore mp3 (sono antica, lo so) sopra la mascherina e gli occhiali senza far cadere la prima o appannare i secondi. Mi sono sentita una contorsionista del Cirque du Soleil e ho iniziato a camminare tutta impettita verso il locale.
Più mi avvicinavo e più mi sentivo in ansia, anche se non potevo scegliere un’amica più simpatica o un ristorante giapponese più delizioso. Sono andata a colpo sicuro: ci ho mangiato moltissime volte (un all you can eat da favola!) e con varie sale giganti il distanziamento sarebbe stato assicurato.
Intanto, giusto per coprire ogni possibile opzione, ho preparato in borsa una specie di kit di sanificazione. In una pochette apposita ho messo guanti e mascherine di scorta, gel per le mani e salviette igienizzanti. Prima di uscire ho persino spulciato il menù dal loro account Facebook annotando sul cellulare il numero dei maki che avrei scelto, per evitare di sfogliare le pagine. Non ce n’è stato bisogno perché ogni tavolo – apparecchiato rigorosamente per due persone – aveva un segnaposto con le procedure del Wi-fi e del QR code per ordinare via cellulare.
Anche la mia amica ha messo sul tavolo la sua scorta personale di Amuchina, sembravamo due medici di Grey’s Anatomy prima di un’operazione a cuore aperto. Ho dovuto togliere la mascherina e senza guanti non sapevo dove mettere le mani, per evitare qualsiasi rischio. Per fortuna ero a due passi dalla cucina e vedere tutto lo staff prendere le varie precauzioni mi ha tranquillizzata. Gli altri clienti – la sala era piena per metà – provavano evidentemente il nostro stesso senso di spaesamento perché nessuno alzava la voce, rideva sguaiatamente o lasciava scorrazzare i bambini nei tavoli altrui.
Per i primi minuti mi sono sentita più imbranata del solito: non sapevo se passare le salviettine sui bicchieri, sulle bottiglie, sotto i piatti o sulla tovaglietta. Ad un certo punto ha prevalso il buonsenso – oltre alla fame, ovviamente – e ho cercato di non diventare schiava di paure più o meno razionali.
Il lento ritorno alla pseudo-normalità passa attraverso piccole conquiste per riprendermi qualche pezzettino della mia vita precedente. È un po’ come recitare una parte: se fingi disinvoltura poi alla fine inizi a crederci.
Questa bolla sembra un paradiso. Mi sono goduta fino all’ultimo chicco di riso e per un attimo mi sentivo bene con me stessa, leggera. Piano piano, però, nella passeggiata in solitaria di ritorno a casa, con la maschera e i guanti, senza incrociare anima viva sono ripiombata nella dura realtà. Dall’esterno sembra tutto uguale, invece non esiste più un solo pezzo del puzzle che combaci.
Sono di quelle che sorride sempre chi incrocia sul marciapiede, ora invece sono una molla che scatta appena la visione periferica intercetta qualcuno. Ogni minimo rumore mi manda in paranoia perché di fatto mi aspetto la prossima tragedia in agguato dietro l’angolo.
Queste parentesi che simulano una routine rassicurante durano troppo poco e si esauriscano sempre più velocemente. Perché quando riacquisti un briciolino di libertà ne vorresti ancora e ancora, ma non puoi. Sulla carta non vige più alcun divieto d’isolamento casalingo e senza le restrizioni alla maggior parte dei viaggi potrei andare dove voglio. Solo che stavolta non ci sono destinazioni sull’agenda, né appuntamenti. I cinema riapriranno a giorni, così come i teatri, ma senza film e piece. Anche loro, come me, hanno il “via libera” ma non sanno come fare.
E, ancora una volta, applaudo a chi ha sempre le risposte in tasca e sprizza ottimismo da tutti i pori. Anch’io vorrei provarlo ma non è così e ammetterlo non mi rende ingrata verso la vita, ma solo esposta. Provo ad essere onesta nei confronti di quello che provo, anche se questo comportamento sta autorizzando molti a scrivermi in privato per dirmi di non lamentarmi perché ho fatto “la bella vita”. Mi piacerebbe ricevere l’estratto conto di questa dichiarazione, ma a volte sorvolo, altre provo a spiegare.
Non voglio sentirmi in colpa perché mi manca l’aria che respiravo. Troppo a lungo ho lasciato che l’abitudine allo “scusate che esisto” mi condizioni la vita.
E, per chi se lo stesse chiedendo, le esperienze lavorative non sono frutto di una botta di fortuna caduta dal cielo, ma di vent’anni di lavoro silenzioso, emerso attraverso le parole del blog solo da qualche mese e sempre per esigenze professionali.
Quando non mi piaceva più quello che vedevo davanti agli occhi mi sono attivata per cambiarlo. Una volta per pagarmi l’affitto ho anche partecipato come concorrente a Chi vuol esser milionario. Al contrario, addossare sugli altri i propri fallimenti e le proprie frustrazioni non porta da nessuna parte, semmai conferma che questa pandemia ancora non ci ha reso migliori.
Di sicuro a me non è successo: scoppio a ridere all’improvviso, mi arrabbio per una sciocchezza, mi sveglio di soprassalto a tutte le ore della notte per poi vivere la giornata in una nebbia costante (inframmezzata dagli stornelli slavi degli operai che sembrano voler demolire il mio palazzo). Sto cercando un senso e uno scopo che non ho ancora trovato e nel correre metaforicamente verso qualche risposta a volte mi sbuccio le ginocchia cadendo.
Non importa, almeno ci sto provando. A modo mio, che non è giusto né sbagliato. E ci scrivo sopra questi articoli perché la carta e la penna – o in questo caso la tastiera – si sono dimostrati strumenti affidabili e leali a cui affidare pensieri fin da quando ne ho memoria. Da adolescente tappezzavo il muro di fronte al letto con post-it motivazionali che inventavo in quantità industriale per ricevere una forza che ancora non sapevo di avere.
Oggi so che sta lì, dentro di me, e non permetto più a nessuno di zittirla o farla arretrare di un passo. Anche quando vacilla davanti all’ignoto di un 2020 da incubo. Non ho rimpianti, solo una grandissima e quasi disperata nostalgia.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Finalmente il vaccino (da volontaria)