Lungi da me trovare del romanticismo in questa pandemia. Il mio spirito da Pollyanna si è sbiadito, quindi no, non vedo capre che suonano il violino, come nel dipinto di Chagall citato nel film Notting Hill. E siccome sono abbastanza convinta che la mia “vita precedente” (quella prima del Coronavirus) si sia conclusa – con un festival alle Bahamas, certo, ma comunque conclusa – tutto ciò che avviene nell’era post-lockdown è una “prima volta”.
E, come tale, viene preceduta da incertezza e trepidazione, in una specie di danza impacciata e sorprendente. È andata proprio così anche ieri. Il primo bacio dopo l’isolamento però non ha niente a che vedere con quello dell’adolescenza, di cui hai visto tutte le simulazioni in TV e nei film. Il mio, poi, a dispetto dell’età, mi sembrava già una specie di promessa prenuziale, uno di quei patti indissolubili siglati con le labbra nell’Ottocento. Lo so, la mia è una famiglia vecchio stile, soprattutto se sei di genere femminile e sei la primogenita.
All’epoca ho scambiato probabilmente l’amicizia per amore perché del secondo io non sapevo proprio niente nella pratica. Ieri invece era affetto puro, totale, disarmante, insomma un bacio sulla guancia, per un’amica di quelle in via d’estinzione, che fanno il tifo per te anche da lontano e con il fuso orario. Di quelle che non rimuginano sui tuoi successi ma li condividono con tutto il cuore. Di quelle che ti riempie “di impiccetti”, come li chiama lei, ossia ogni genere di oggetti di varie dimensioni riguardanti le mie passioni.
In cucina ho da anni un suo orologio da parete ormai rotto che non riesco a buttare perché mi dà allegria solo a guardarlo perché penso a lei. Per non parlare del posa-mestolo con i gufetti. Lei è così: mi porta a casa le torte di sua mamma ancora calde perché sa che ne sono ghiottissima. Anche se una volte – quando condividevo la casa con coinquilini demoniaci – pur di stare da sole ce ne siamo portata una di mele sulla panchina di un binario della stazione Termini a Roma. E io ne ho addentato un pezzo con tutto lo stuzzicadenti che la madre aveva saggiamente inserito per non far addensare lo zucchero a velo al foglio d’alluminio di copertura. Mi si è conficcato nel palato, ovviamente, e da allora controllo sempre due volte per non finire infilzata da un boccone di troppo.
È quel genere di persona che quando fa con me la foto con un attore poi se la stampa e la porta all’artista in questione per farsela autografare raccontandogli di noi. Mica mi taglia dallo scatto per fingere che fossero solo loro due, perché vuole che ci sia pure io. Condivide e basta perché ha un cuore gigante e una pazienza che sfiora la santità. E quando io le racconto una delle mie passioni – ad esempio lo scrapbooking – non mi dice: “Ma cresci, cavolo! Vai a comprare un bigliettino d’auguri già fatto invece di perdere le nottate a realizzarlo tu! Dai che fai prima!”. No, lei già pensa che quando lascerò il “monolocale a senso unico” potrò sicuramente trovare un nuovo appartamento dove espandermi con angoli ad hoc per esporre in bella mostra cartoncini, nastri, forbici sagomate e pistola a caldo.
E così ieri l’ho presentata ad una delle figure-chiavi della mia vita, Alvaro, il proprietario della rosticceria all’angolo di casa che mi allieta i week-end con il suo pollo alla diavola allo spiedo. Ormai i miei migliori amici li conosce tutti e mi chiede sempre di qualcuno di loro, s’informa che vada tutto liscio.
Questa mia amica non la vedevo da sei mesi: sull’uscio di casa me la sono guardata per qualche secondo perché ormai non so più cosa fare neppure davanti alle persone a cui voglio bene. Di questi tempi devi chiedere il permesso per avvicinarti. Ci siamo sorrise con gli occhi e le ho detto: “Non resisto. Posso?”. E allora l’ho abbracciata, ma proprio forte, e le ho schioccato due baci sulla guancia.
Spero davvero di non averla messa in pericolo, ma io in tutti questi mesi in solitaria a casa mi sono sempre bardata come una mummia uscendo per fare veloci commissioni a piedi e nel quartiere e so per certo che anche lei ha fatto vita da reclusa con i suoi.
Mi è venuto quasi da piangere perché sono una specie di Orsetto del cuore e di solito abbraccio tutti, anzi a volte faccio anche delle gaffe culturali pazzesche in Paesi dove questa interazione tra uomo e donna è fortemente sconveniente, ma sto imparando. Ci sono state situazioni in cui proprio ho richiesto espressamente un contatto, anche semplicemente prendersi per mano o con il mignolo, quando non avevo sotto mano il cioccolato in un momento di cali di zuccheri. Mi funziona un po’ come il caricabatterie.
Ma sono stata ligia fino a ieri, una piccola soldatessa a distanza dagli affetti, che non si è congiunta o assembrata con nessuno, non ha fatto movida né presi aperitivi. Probabilmente il maggior numero di persone a distanza ravvicinata – anche se con una finestra tra me e loro – che abbia visto in questi giorni sono gli operai del cantiere del palazzo, con i loro stornelli slavi.
Spero tanto che quel bacio non mandi in fumo gli sforzi fatti da marzo, mai avrei pensato a questo come alla descrizione sotto la voce “vivere pericolosamente”.
Mi è sembrato qualcosa di talmente eccezionale e magico, anche se è durato un secondo prima del solito igienizzante di rito e del protocollo da CIA che ho attivato nelle poche visite ricevute a casa in queste ultime settimane.
Basti pensare che doveva essere un salutino veloce a pranzo e siamo finite a inserirci anche aperitivo e cena senza mai smettere di parlare. Non ci sono selfie insieme – solo una poetica foto della torta di sua mamma – né video o altro a commemorare un evento ora straordinario, ma un tempo assolutamente spontaneo e naturale. Di solito iniziamo mille discorsi che s’intrecciano ininterrottamente senza mai un solo istante di silenzio imbarazzato.
Al cinema ci stringiamo il braccio se c’è una certa scena, come una specie di messaggio segreto. In vacanza becchiamo inevitabilmente l’hotel degli orrori, quello con carrello della spesa in bella mostra sul pianerottolo delle scale, avvolto da una coperta di quelle dall’aria sospetta, che nei film nascondono sempre un cadavere. E per strada quando un tipo notevole attira l’attenzione ci guardiamo contemporaneamente sussurrando la parola in codice “panico”.
Di motivi per cui quell’abbraccio è stata una specie di morsa d’acciaio ce ne sarebbero tanti, ma la verità è che quando vuoi bene a qualcuno non hai bisogno di spiegarlo. Lo sai e basta.
La pandemia ci ha tolto tanto, ma la certezza di ritrovare chi ami nello stesso posto in cui l’hai lasciato l’ultima volta è uno dei pochi punti fermi di questa nuova e terrificante vita.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Coronavirus, finalmente il vaccino (da volontaria)