Ecco il video del mio intervento all’evento Stand up for girls 2019 organizzato da Terre des Hommes Italia (il racconto della serata potete leggerlo qui):
Qui il testo completo del mio intervento:
Buonasera a tutti, visto che è l’ora di cena – più o meno mi sembrava giusto iniziare il nostro piccolo, breve viaggio che faremo insieme questa sera parlando di cibo, cominciando dall’inizio, da uno dei ricordi forse più forti che ho dell’infanzia. Quando ero piccina mi svegliavo di sabato mattina, anzi di domenica mattina, prestissimo (alle 5), perché tutta la casa era invasa da questi odori che si diffondevano in tutti gli ambienti: si cominciava a friggere a quell’ora. Di tutto, quindi polpette, quelle che voi chiamate cotolette (le fettine panate), panzerotti… tutto quello che si poteva friggere finiva in padella. E questo era l’inizio di un rituale che portava poi all’arrivo in spiaggia – perché io sono salentina – con questa specie di tendone che conteneva qualsiasi tipo di tegame, pentola e fornellino elettrico – ovviamente – e sembrava il cenone di Natale, anche se c’erano 45 gradi. Ecco, quindi, tutto questo stare insieme, mangiare insieme, sfamarsi per me era un sinonimo di amore, amicizia, affetto.
E l’ho pensato per un bel po’ di tempo, finché poi non sono cresciuta e ho capito qualcosa di diverso perché la realtà esterna era un po’ complicata. Per una come me che per tutta l’infanzia si è sentita ripetere due paroline non è stato facile. Le due paroline erano “stai sciupata”. Ora, io vi assicuro che io in vita mia sciupata non sono stata mai, avevo sempre le guanciotte, i rotolini, le maniglie dell’amore, tutto ma sciupata mai. Però a casa, in famiglia, se mangiavi era sintomo di benessere. Però quando sono andata alle elementari e sono un po’ cresciuta, la realtà che avevo davanti era un po’ diversa.
È c’è un ricordo in particolare, forse avrò avuto 6 o 7 anni: festeggiavamo durante la ricreazione alle elementari il compleanno di questa compagna. E abbiamo fatto questa foto vicino alle candeline e non ci ho più pensato per un sacco di anni, finché questa ragazza – che oggi è una donna – non ha pensato bene di postarla su Facebook e di taggarmi. E da lì si sono innescati vari commenti, il più carino era qualcosa del genere: “Attenta che questa si mangia non solo la torta ma pure te”. Allora le ho scritto privatamente dicendole: “Guarda, magari smorziamo un po’ i toni, buttiamola sul ridere”. E lei, piccatissima, ha detto: “Sei una bacchettona, ma come te la prendi, che suscettibile, ledi la libertà di parola dei mei simpatici amici”. E io: “Ok, va bene, per carità”. Alla fine dopo un ping pong (di messaggi, ndr.) l’ha eliminato (il post, ndr.), ma non è questo il punto.
Questo ricordo – che io avevo racchiuso in un cassetto e dimenticato – è riemerso da poco quest’estate quando all’improvviso uno dei giornali per cui collaboro – perché appunto mi occupo di spettacoli – il quotidiano Leggo mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza, cioè come si vive in questa pelle, nella pelle di donna morbida (morbidissima, diciamolo pure) e per la prima volta mi sono ritrovata a parlare di me stessa, perché in realtà nel giornalismo le storie che racconti sono quelle degli altri, non ti metti uno specchio (davanti, ndr.). Per cui la situazione è stata un po’ rocambolesca anche perché mi trovavo su un autobus che mi portava dal festival dei ragazzi di Giffoni fino all’hotel che avevo a Salerno e in 10 minuti ho dovuto raccogliere tutte le idee, le sensazioni, le emozioni e metterle nero su bianco. Ed è stato un po’ un atto d’incoscienza perché appunto non è mai facile raccontare te stesso e ripescare questi ricordi, soprattutto tra le curve del Cilento – non so chi di voi ci è stato – non è stata una cosa facile, ma comunque questo ricordo del post di Facebook è stato il primo che mi sia venuto in mente.
Il secondo, invece, ad un’esperienza che per me è quella più importante dell’anno professionale, il festival della tv di Montecarlo: ogni anno il principe Alberto II di Monaco organizza un cocktail privato nel suo palazzo, invita tutti gli attori presenti alla manifestazione e qualche altro ospite, tra cui la giuria di cui faccio parte. C’è il ciambellano che ti manda l’invito con il dress code, cioè ti devi vestire in un certo modo, con un determinato abbigliamento che devi rispettare.
Gli altri anni, quelli precedenti a questo, è stato facile, un anno l’ho preso a Londra, un anno a Parigi, un anno ad Amsterdam. Quest’anno per una serie di incastri lavorativi non sono riuscita a comprarlo in tempo e nel mio essere un po’ naïve e Pollyanna e ho pensato: “Non sarà così difficile trovarlo in Italia”. No, è stata un’impresa. Praticamente dopo settimane in cui mi offrivano dei sacchi, praticamente, per coprire tutto quest’ingombro e questo peso – non sia mai si veda! – sono arrivata alla settimana prima (dell’evento, ndr.) in cui dovevo comprare questo vestito e alla fine l’unico vestito in settimane di ricerca che ho trovato l’ho provato e mi sono chiusa fisicamente in camerino – immaginatevi la scena – mi sono seduta per terra e mi sono messa a piangere, con molta dignità, come potete immaginare.
Però, scherzi a parte, non è stato il mio momento migliore della vita ma neppure il mio momento peggiore e non mi vergogno oggi a raccontarvelo perché quello che è seguito dopo è valso la pena di tutte quelle lacrime per questa famosa tuta blu che alla fine ho indossato. Cosa è successo? Ovviamente quella sera sono stata malissimo, non ho fatto foto, mi sentivo a disagio, umiliata e arrabbiata che questo episodio mi definisse. E avevo pensato, molto sportivamente, di bruciarla il giorno dopo. Io avevo fatto questo proposito, la sarta ovviamente si strappava tutti i capelli, perché – poverina! – ha anche dovuto mettere la cerniera perché il congegno di questa tuta prevedeva due persone, oltre a me, per poterla indossare perché non c’era la cerniera, appunto, quindi o diventavo una contorsionista del Cirque du Soleil oppure avevo gli assistenti lì, gli elfi (per indossarla, ndr.). E quindi la sarta alla fine, dopo tutto questo lavoro per entrare nella tuta, non voleva che la bruciassi, sostanzialmente.
Cos’è successo però dopo che è uscito quest’articolo? Qualcosa di straordinario che non mi aspettavo – e non solo perché Dagospia l’ha ripreso, l’ha ripreso Apple News – perché hanno cominciato a scrivermi anche persone che non conoscevo (e io parlo pure con i sassi alla fermata degli autobus), tutti mi chiedevano come fosse questo vestito, come mai non mi entrava e come mai non volessi fare una foto. E hanno condiviso le loro storie, allora da quest’atto d’incoscienza iniziale è nato un atto di coraggio. Mi sono detta: non solo non lo brucio – motivo per cui la sarta ancora mi ringrazia – ma lo indosso non con gli amici quando esco, nascosta in un angolo del bar, ma su un palco, facendo un’intervista, durante un festival, sotto i riflettori, mi faccio le foto, senza Photoshop, fotoritocchi, così come sono, ci faccio anche un video, lo posto e dico: Io sono così. E punto.
E non perché non abbia provata ad essere diversa. Dopo una serie di consigli non richiesti che ho ricevuto per tutta la vita di gente che diceva: “Piantala, mollala lì, dimagrisci”, mi sono messa a dieta. Ho pensato: “Ce la posso fare”. E sono arrivata a pesare 59 chili, però se io rivedo le foto di quella ragazza, era magra, sì, era magra, però non era felice. Se io vedo le foto di questo periodo vedo le foto di una ragazza – ho 40 anni e ancora mi chiamo “ragazza” – a cui brillano gli occhi, che è contenta, che sospira quando mangia un gelato (eh sì, così è, bisogna essere onesti). Ho smesso di guardare il mondo attraverso il filtro di quei numeretti delle calorie perché io andavo in giro con quella che qua (a Milano, ndr.) si chiama “schiscetta”, il box lunch, con la seppiolina bollita, la patatina lessa e vedevo ovunque attorno a me questi numeri di calorie, con l’ossessione della bilancia e del peso, contavo qualsiasi cosa che mi succedeva in termini di numeri, ingombri e peso che rappresentavo. Ma dopo quest’atto d’incoscienza che poi ha portato ad un gesto di coraggio io ho capito che questa vita non la voglio più fare, ho regalato la bilancia e ho deciso di non lasciarmi più definire da questi benedetti numeri.
Quello che io vi auguro stasera è che anche voi troviate qualcosa che vi rende felici e ve lo teniate stretto, che proviate la libertà di quando ci si guarda, ti vedi davvero e ti vuoi bene.
In conclusione, giusto per chiudere il discorso e tornare all’amata frittura: Fatevela una lasagna!
Grazie