Le interviste sono come un appuntamento al buio. Hai batticuore, adrenalina, aspettative e non sai mai cosa ti capita (un po’ come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump). In vent’anni di aneddoti da raccontare ne avrei a bizzeffe, ho pure una speciale top ten dei migliori e peggiori incontri e non dipendono dal fatto che l’interlocutore sia pluripremiato o sconosciuto ai più. Siamo tutti esseri umani e, come sulla pista per un ballo in coppia, entrambi devono voler collaborare alla riuscita del progetto. Ci siamo dentro in due (beh, a volte è un ballo di gruppo, ma insomma ci siamo capiti) e quindi nel mix entrano molto fattori, tra cui anche la simpatia per l’altro. Per me al primo posto si piazza la gentilezza: se ho di fronte qualcuno – famoso o non – che ti saluta, ti ringrazia e chiede scusa per il ritardo o un imprevisto allora mi ha già conquistata. In alcune situazioni ho pochi minuti e il non-verbale conta come (o più) dello scambio a voce.
In linea di massima ci sono vari tipi d’interviste, non tutte sono individuali, a volte sono con un ristretto numero di giornalisti (le cosiddette round table) o con una larga fetta della stanza (ad esempio le conferenze).
Lasciate perdere la musica, in tempi di lockdown la danza diventa virtuale, a distanza, decontestualizzata e priva di quasi tutti gli stimoli sensoriali. Molto spesso diventa uno show a senso unico in cui non puoi neppure fare domande e la persona che modera l’evento si trasforma da spalla a protagonista e, come se stesse nel divano di casa con un amico, chiede qualunque cosa gli passi per la mente spostando i riflettori su di sé.
Nel caso di una manciata di persone coinvolte nella chat, di solito su Zoom, si fa a turno, come durante le interrogazioni, il che falsa totalmente l’atmosfera e la fluidità della conversazione. Quando ci sono più artisti – in gergo i “talent” – scatta l’effetto “gita di classe” in cui interagiscono tra di loro tagliando fuori i giornalisti. Succede anche dal vivo, ma se hai un attore seduto accanto a te ad un certo punto riesci garbatamente a disinnescare questa dinamica cameratesca per cercare di tirar fuori qualche frase di senso compiuto o almeno utile allo scopo. Giochiamo tutti nella stessa squadra, no?
La metafora sportiva a volte raggiunge l’obiettivo, ma – com’è facile immaginare – se sei di fronte ad uno sconosciuto da solo puoi creare un dialogo più onesto, diretto, fluido.
Nelle chat virtuali c’è un intero entourage in ascolto, anche se sono da sola con il personaggio di turno, un po’ come quando fai interviste video e nella stanza minuscola si affolla chiunque, dallo stagista reggi-caffè alla parrucchiera e alla truccatrice per ritocchi last-minute. La creatura più temuta è quella che azzera il cronometro e inizia a farti gesti di ogni genere alle spalle dell’intervistato, per comunicarti di chiudere con le domande. Di solito ha la calma e la pacatezza del portiere quando vede che sta andando a fuoco il palazzo.
I protocolli virtuali sviluppati sono degni della CIA, con tanto di countdown da far impallidire Cape Canaveral.
Di solito quando aspetto d’intervistare qualcuno, mi trovo in un hotel, con tanto di sala d’attesa con bevande e snack. Quando a Londra ho aspettato cinque ore Rihanna mi hanno portato pure merenda e cena (è arrivata quasi alle 11 di sera). Se sono con colleghi piacevoli, mi metto volentieri a chiacchierare, se incontro i soliti vampiri energetici invece indosso le cuffie con la musica e li ignoro. Tutti conoscono la tipologia, è quella che prima degli esami all’università ti assilla dicendo di non sapere nulla o tirando fuori le domande più improbabili sull’argomento, in modo da scaricare l’ansia su di te. Ormai li identifico immediatamente e passo oltre.
Nella versione virtuale l’attesa ha vari step e “la waiting room” dura per un tempo indeterminato mentre i vari membri dello staff degli artisti si parlano tra di loro con tutto un pubblico di giornalisti, seduto ognuno a casa sua zitto e muto ma davanti alla telecamera, quindi senza la possibilità di fare nulla. A volte ti portano in una saletta virtuale a parte, stile limbo che si chiama “breakout room”, dove ti danno raccomandazioni dettagliate (di solito divieti mascherati da caldi suggerimenti). Annoiata e stremata dall’attesa, sbircio i background dei colleghi: alcuni per fare i disinvolti scelgono ambientazioni come la savana o il corridoio di Shining, altri si vestono in abito da sera per fare i divi ma poi si collegano dalla cucina di casa con le tazze sporche e sbeccate nel lavandino o in ambienti bui, in linea con l’ultima moda dei bunker per i sequestri. Alcuni vecchia scuola ci mettono mezz’ora solo ad attivare microfono o videocamera e in sottofondo si sentono imprecazioni e singulti. Gli apocalittici, invece, ripetono che tanto moriremo tutti e si accasciano sulle scrivanie, sempre pronti a dare una capocciata al muro all’occorrenza.
Di solito la categoria dei perniciosi riesce nell’impresa quasi impossibile di darti sui nervi pure da uno schermo perché o masticano o bevono rumorosamente oppure lanciano le palline antistress contro il muro. Insomma, i compagni di banco ideali per una sala d’attesa. Mi diverto di più dal dentista, che peraltro è simpaticissimo, preparato e paziente, ma so che molti non apprezzano neppure il controllo di routine, quindi alla loro empatia faccio appello.
Prima che si arrivi a parlare con il personaggio di turno mi arriva una serie di mail con link su link e sembra di essere nel labirinto del Minotauro. Quando arriva l’ora X sono collassata: il trucco vira sull’effetto panda, la posizione eretta ma in diagonale (lo studio non permette molti margini di manovra) mi fa sembrare il Gobbo di Notre-Dame e l’esercito di muratori fuori dalla finestra il più delle volte aggiunge il sottofondo di stornelli slavi regala una colonna sonora in stile “gatti intrappolati sui tetti”.
Questa settimana credo di aver battuto il record di attesa online (oltre tre ore in totale), ma senza neppure poter lasciare la postazione per bere, mangiare o fare due passi – sempre nell’appartamento a senso unico in cui vivo – o usufruire di questi piccoli benefit dell’attesa, che mi hanno sempre fatto sentire accolta.
Forse svelare i retroscena di un’intervista equivale a togliere la magia dal cinema mostrando gli attori in tutina verde davanti ad un fondale finto. Magari chi la legge pensa che sia stata realizzata a bordo piscina nella villa di Brad Pitt durante un branch con George Clooney o che nasca da un giro sul jet privato con destinazione Maldive per fare un salutino a Leonardo DiCaprio prima che riparta a salvare le balene. E a volte cose situazioni bizzarre mi sono successe davvero, ma io per prima stento a crederci perché sono l’eccezione, mentre la follia quotidiana somiglia di più a queste videochiamate assurde. Una volta mi sono dovuta anche scusare con il meccanico di un attore al telefono perché lui non gli ha aperto la porta per dargli le chiavi dell’auto come concordato e invece ha continuato l’intervista (dettaglio di cui ero totalmente ignara). Quando il signore si è spazientito, l’attore me lo ha passato al cellulare così che potessi addossarmi la colpa dell’accaduto.
Ma torniamo al presente: spero comunque che la storia venga fuori dalla pagina e dalle parole, anche in questa specie di deprivazione sensoriale. Poi all’improvviso il genio: Enrique Arce (Arturito ne La casa di carta) intona una canzone italiana durante l’incontro. E ricordo perché ho fatto questo lavoro e perché continua ad avere un senso nonostante la follia circostante e in una vita che non riconosco più. Ho provato a scrivere di cronaca nera ma tornavo a casa angosciata e afflitta, ecco perché gli spettacoli restano il mio campo. Voglio far sorridere la gente, intrattenerla, farla evadere quando la realtà sta stretta e ridare speranza attraverso l’arte. Diventare lo strumento che amplifica la portata di storia, mettermi al servizio di chi la racconta e sentire l’adrenalina che mi scorre dentro me per ore prima e dopo un incontro mi fa sentire viva. Proprio come succede alla vigilia di un appuntamento al buio. Anzi molto, molto meglio.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
E qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno