Il cibo – nel caso della foto il cuoppo napoletano – mi mette un’allegria indescrivibile e, anche quando la vita mi riserva limoni, provo a farmi una limonata. Non sempre ci riesco, anzi a volte pasticcio, mi faccio male e, nonostante le migliori intenzioni, ottengo risultati surreali. Ma in queste immagini ci sono tante donne, quelle che mi hanno vestito (le meravigliose Sara e Flavia, della boutique sartoriale inclusiva romana Fabbrica di giuggiole), incoraggiato a sorridere per poi immortalarne lo scatto (Vanessa di SoFashion) e le colleghe meravigliose del settimanale F, che nel numero 38 del 2020 mi hanno permesso di raccontare una storia “tutta curve”… A tutte loro e a quante credono che peso e valore non si equivalgano mando un abbraccio di quelli morbidi morbidi.
To me food – you cannot see it in this pic, but that day I have eaten the delicious Neapolitan “cuoppo” made of fried fish and vegetables – is pure joy. And if life gives me lemons, I make lemonade. Sometimes I succeed, sometimes I fail, of course it hurts and, but even my best intentions get me into troubles.Behind these colorful pictures there are many womens: they are crafty, talented Italian dressmakers (Sara and Flavia from the Roman boutique Fabbrica di giuggiole), lovely photographers and bloggers such as Vanessa (founder of SoFashion Blog) and all my amazing colleagues from weeky F magazine (on issue 38 of 2020, they have allowed me to tell my “happy, curvy” story). They all remind me that weight and value are different, that’s the reason why I send them all my biggest hug.
Ecco il testo completo dell’articolo:
“Sei una palla di lardo”, “adatta a fare la scomparsa perché obesa”, il tuo posto è “nella discarica”. Leggo questi messaggi sulla bacheca di Instagram una, due, dieci volte, e spero di aver capito male. Mi aspetto di veder spuntare da un momento all’altro un’emoticon con l’occhiolino, almeno così potrei considerarla una di quelle “battute” sul peso a cui da 40 anni fingo di ridere. Ma la verità è che non ne ho più voglia e in un attimo queste frasi mi riportano indietro fino alle elementari. Con le guance paffute, i fiocchetti tra i capelli e il grembiulino celeste, mi rivedo lì, sempre in ultima fila alle recite scolastiche e nelle foto di classe, più alta e voluminosa delle compagne, fuori misura per i canoni standard di quell’età.
La bottega delle meraviglie
Nonna ha un negozio d’alimentari – in dialetto salentino si chiama “putèa” – e mi riempie sempre le tasche di caramelle rosa, nonno fa l’agricoltore e d’estate mi porta con l’apecar a prendere il gelato. Con loro tutto è semplice e se mi vedono lontana dalla cucina mi dicono che “sto sciupata”. I compagni delle medie no: nell’ora di educazione fisica nessuno mi sceglie nella squadra del torneo di pallavolo e di rado qualcuno m’invita per prima alle feste di compleanno. I bulletti della classe non mi affrontano perché sono più alta e robusta di loro, ma li sento sempre ridacchiare e prendermi in giro, alle spalle. Vanno di moda i gavettoni per le strade e io sarei il bersaglio perfetto, se non avessi proposto uno scambio: l’aiuto a fare i compiti per l’immunità dalla doccia gelata. A pensarci, mi sembra persino di cavarmela bene, senza troppe ammaccature, in quest’adolescenza un po’ schizofrenica. Da un lato le prozie – quelle che trasformano in cenone di Natale lo spuntino in spiaggia con 40 gradi – mi ripetono di non essere abbastanza in carne da poter attirare un marito. Dall’altro le cugine più grandi mi rifilano i loro abiti smessi ridendo a crepapelle perché mi stanno talmente stretti da non respirare. Sono a loro a consigliarmi – a nove anni – d’indossare solo il costume intero al mare: “Così ti copri un po’ – dicono – e non si vede quanto sei obesa”.
La ragazza invisibile
Io, la bambina con le polpette in riva al mare, a quel punto inizio a sentirmi in colpa ad ogni boccone. Le frecciatine più o meno pesanti continuano, soprattutto nella comitiva di amiche: un ragazzino del paese vicino mi piace moltissimo e loro in sua presenza mi riservano una dose extra d’insulti. “Me la sono cercata – mi ripeto – brutta e grassa come sono cosa pretendo?”. Allora smetto di mangiare e dimagrisco fino a che le ossa della scapola non diventano sporgenti: sono alta 175 centimetri e peso 59 chili, ma non mi sento diversa né vengo accettata con maggiore apertura. Niente bikini, gonne corte o pantaloncini: il riflesso allo specchio sembra sempre “troppo” e comunque “sbagliato”. La bilancia mi ricorda il fisico longilineo e snello che non avrò mai. Voglio scomparire, diventare invisibile e continuo a scegliere maglioni larghissimi e pantaloni giganti, ma neppure questo funziona: comunque in me trovo qualcosa che non va e tutti si premurano a ricordarmelo.
Il boomerang social
Quella magrezza – che nella mia mente è sempre stata sinonimo di bellezza – non diventa la soluzione magica ai miei problemi e si rivela un fiasco. A me manca la lasagna e questo corpo continua ad essere infelice. Ritorno alle mie curve solite – e a subire le solite cattiverie – e me le faccio andar bene, come se me le trascinassi dietro come la lumaca con il guscio. Arriva l’ennesima umiliazione di una commessa a cui chiedo una taglia morbida, scoppio a piangere per terra nel camerino, non ce la faccio più. E allora prendo una decisione: smetto di odiare e maledire l’immagine riflessa di fronte a me e faccio pace con l’idea di essere fatta della materia dei sogni (calorici, ovviamente) e decido di abbracciarla in tutta la sua morbidezza. Per la prima volta pubblico sui social una foto in costume dove sorrido per davvero e provo la leggerezza di star bene… dura pochi minuti, il tempo del primo commento al vetriolo. E no, non è il simpaticone di turno con la lingua lunga, ma una hater decisa a minare quel briciolo d’autostima che mi sono conquistata tra tante lacrime. Mi vergogno, cancello il commento, mi sento umiliata perché non capisco in che modo la mia immagine possa aver offeso questa signora sconosciuta. Dopo aver parlato con un’amica criminologa, capisco che il problema non sono io e non posso più liquidare gli attacchi come innocue battutine.
Hollywood e dintorni
Come se non bastasse il senso d’inadeguatezza provato per anni, ho scelto un settore, il giornalismo nel mondo dello spettacolo, in cui l’apparenza regna sovrana e una taglia 42 sembra un crimine contro l’umanità, figuriamoci la mia XL! Non che mi voglia paragonare alle star che intervisto, per carità, il confronto sarebbe impietoso. Già camminare su un tacco di 7 centimetri per me si rivela un’impresa, per non parlare della ricerca da rabdomante per trovare un paio di scarpe graziose e femminili oltre il 40 (e a pianta larga). Sarebbe più facile prendere un thè con un lepricano e uno yeti. Lo showbusiness impone canoni di bellezza che rasentano l’impossibile, non tengono conto dell’alimentazione mediterranea, della struttura corporea, del metabolismo e delle diverse esigenze. E chi non rientra in questa categoria eterea di fisici privi di smagliature, cellulite, pelle a buccia d’arancia e qualsiasi ombra di grasso corporeo? Deve subire – faccia a faccia oppure online – qualsiasi genere di crudeltà. Uno studente d’ingegneria su Facebook mi scrive che sono affetta da “emofilia emotiva” e “immaturità patologicamente disarmante” tirando in ballo persino i bambini di Auschwitz per perorare la sua tesi. Adesso però basta, cari leoni da tastiera e bulli (fisici e cybernetici). Ho deciso di metterci la faccia (e anche i rotolini) con una campagna sui social per combattere il bodyshaming e promuovere l’accettazione di sé. L’ho ribattezzata “Curvy… e sto” perché oggi sto imparando a chiamare le mie forme per nome e a rivendicarle a testa alta. Non è una questione di “grasso è bello” ma solo di maggiore rispetto e gentilezza per tutte le forme, le dimensioni e i pesi. L’inclusività comincia da qui.
Qui l’articolo completo, pubblicato sul settimanale F, numero 38 del 2020
Location: Gocce di Capri – Massa Lubrense
Outfit: Fabbrica di Giuggiole
Foto di: Vanessa Arciero – SoFashion